Lettera privata a M e F.
1.
Ho cercato di non subire le piante che mi sono trovato di fronte. Sono salito in corsa. Ma il lavoro era buono, o per lo meno mi sembrava di aver capito che avesse un’evidente potenzialità. Non sto parlando di costi, ma di quanto sia prezioso, nel senso più nobile del termine, e quindi ho cercato di trasformare ciò di cui si disponeva, in una risorsa.
Allora abbiamo attivato quel processo di riduzione in cui credo fermamente e che sta alla base del mio lavoro. Un processo di riduzione che lavora sulla semplificazione formale per lasciare in evidenza la sostanza (eleganza, praticità, proporzione ecc.) e che mette in evidenza la complessità delle relazioni fra gli elementi che, sempre, l’architettura stabilisce.
2.
Ridurre significa ripulire da ciò che non aggiunge nulla. Così, a mio parere, si trova disvelata la bellezza. Allora alla riduzione formale corrisponde una complessità di relazione, di senso. Ecco che semplificare (ridurre), in questo caso significa disvelare, disvelare una complessità di relazione.
Le relazioni fra le parti sono state il filo conduttore. Mettere in evidenza queste relazioni e trasformarle nello “strumento con cui suona l’architetto” (S. E. Rasmussen) è stato il mio lavoro.
Ogni accordo di questo blues rimanda a quello successivo in un intreccio di percorsi, di allineamenti, di rimandi e traguardi. Ognuno di questi target è diventato “l’assolo” e quindi è stato trattato affinché vivesse di vita propria, fosse compiuto, ma all’interno della composizione generale.
Il materiale ed il suo disegno di finitura, sono la base armonica, mentre i singoli episodi sono gli assoli, gli acuti, le fughe.
3.
Per questo, una volta entrati dal cancello pedonale, ci si ferma di fronte al primo muro di travertino. Questo ci blocca, è in pietra a spacco, grezza, ruvida, che non ci permette di guardare/vedere ciò che il muro perimetrale ci concede solo di scorgere in anticipo.
Questo primo muro ci impone una sospensione, un primo momento di decantazione in cui accresce l’aspettativa (l’attesa del piacere non è forse, essa stessa, il piacere? (G. E. Lessing)); e ci costringe a scostarci per inquadrare e allinearci perfettamente. Così, dal semplice scorgere la casa, si passa a comprendere tutta la sua volontà di accoglienza e ospitalità. Percorrendo il lastricato in travertino, trattato in spessore, compiamo “un percorso iniziatico”. Cos’è l’accesso alla casa se non un percorso iniziatico? Se non un rito purificatorio che tutti i giorni si rinnova? (Entrando in casa i giapponesi si tolgono le scarpe, per lasciare fuori le impurità).
Entriamo cosi nel vestibolo, ma non prima di aver guardato quello stesso muro, da dove siamo arrivati, che ci ha obbligato a tanto. Ma dalla parte opposta! Dove si rivela più liscio e “curato”: siamo dentro. Si, perché quel muro è/era la vera soglia che ci ha ammesso al mondo privato. La Casa cos’è se non questo nostro mondo?
4.
Il vestibolo è un mondo a sé, un luogo di passaggio che ci permette di allinearci. Da lì ci si può avviare verso le zone del sorriso, della luce e dell’ospitalità, oppure verso ”gli abissi domestici” (Attilio Bertolucci); quei luoghi più segreti ed intimi dello stare, dell’intimità familiare e del riposo.
5.
Per risalire quelle scale ho immaginato un flûte di Champagne, fra oro, bolle che salgono e luce.
Un mondo frizzante e prezioso dove giovanotti, signorine ed i loro genitori possono “inabissarsi” più volte in un giorno, perché tanto sono al sicuro. Sono a casa!
Ma quell’oro effervescente e fresco è anche un richiamo a Gustav Klimt ed al suo Bacio: un gesto di passione e di affetto, ma anche di dolore ed elegante coinvolgimento.
Non nascondo che tutto parte dal lì. Grazia e vita per me sono quell’arte.
6.
Si accede al soggiorno attraverso porte dorate che ospitano la luce fino a farla diventare materia.
La luce! Come si fa a non nutrirsi di quella sostanza? È la luce che recita la parte della Regina. Se solo si raggiunge il centro del soggiorno si comprende tutta la composizione di relazioni che tengono legati gli elementi di questo blues.
La parete del camino è una facciata come fosse un esterno, alle nostre spalle il “calice dorato”, alla destra quadri importanti, esplosioni di colori astratti, e i libri. A sinistra un monumento secolare: l’Ulivo, maestoso e significativo, come ad evocare l’Orto dei Getsemani, un piccolo luogo dominato da un capolavoro naturale, sotto cui sedersi, fermarsi, per ritirarsi qualche minuto e per “rimettere le cose a posto”.
7.
Scostandosi di poco, verso sinistra (sempre guardando il prospetto del camino), si scorge il muro dello spogliatoio, fatto della stessa materia. Si tratta dello stesso prospetto esterno. La casa è dentro, è fuori, e nulla cambia. Accoglie il mondo e lo completa. Esterno ed interno non fanno differenza.
8.
La piscina riflette la sua “luce di sole” sul soffitto del portico, che è la restituzione invidiosa, ma sincera, del cielo stellato. Così che acqua e cielo si toccano, accolti in quest’architettura.
9.
Infine si esce, in modo ideale, oltrepassando il muro verso ovest, che guarda il prato. Ma ancora di più, guarda il tramonto! Come ultimo traguardo di questo percorso.
È ancora ruvido, o meglio, è ridiventato ruvido, per meglio “bere” la luce del sole, per trattenerla il più a lungo possibile, perché anche questo giorno non finisca!
Allora ci si potrà sedere sulla panca in pietra e socchiudendo gli occhi, specchiati nel tramonto, si comprenderà questo Architectural Blues, cercando di capire se in maggiore o minore, di sicuro graffiante, sofferente o sofferto, ma del quale non possiamo più fare a meno.
P.S.
Questo breve scritto è la trascrizione di ciò che ho scritto nella notte del 11 novembre 2020 quando, di impulso e senza rimedio, ho deciso di fissare alcune idee di progetto che da mesi hanno ingombrato la mia mente, e che hanno guidato le scelte che stiamo realizzando nel cantiere della casa dei nostri Committenti.
Se Gianugo Polesello avesse avuto ragione – e ce l’aveva – il progetto è un’ossessione! Ogni mio progetto è, per me, un’ossessione che si trasforma, nei casi migliori, nella necessità incontrollabile e incontrollata, di scriverne le ragioni aiutato da schizzi, disegni, acquerelli ecc.
Ho scritto di getto, tracciato linee e colorato accompagnato da una tribolata colonna sonora, mentre Arno faceva finta di ignorarmi, accoccolato sotto il mio tavolo da disegno.
Ne è uscita una pianta completata da un testo. Questa trascrizione ne è una sorta di traduzione, con qualche correzione e chiarimento.
Ho aggiunto, sostituito, completato con non più di alcune parole e locuzioni. Poche frasi sono state terminate e comunque mai aggiunte. Ho sistemato la punteggiatura.
Insomma ho corretto uno scritto che ho steso d’un fiato mentre progettavo, disegnavo e coloravo, in una sorta di attacco di furore, come del resto, mi è capitato altre volte.
Per questo anche la calligrafia non sempre risulta leggibile.
Mi sembra di vedere le facce di molte persone conosciute, che mi chiedono perché perdere tanto tempo con cose del genere, in fin dei conti il cantiere sta procedendo. Credo invece che disegnare e ri-disegnare, scrivere e ri-scrivere, sia un modo per confrontarsi anzitutto con se stessi e dimostrare quanto si crede nelle idee che diventano muri. E per cercare di avvertire, finalmente una notte, il “fremito d’ali” dell’angelo di Plecnik.
Playlist:
Loan me a dime (Boz Scaggs & Duane Alman)
Y’ll play the blues for you (Albert King)
Goig Down (vers. Joe Bonamassa)
Riding with the king (E. Clapton and B.B. King)
Texas Flood (S. R. Vaughan)
Clair de Lune (Claude Debussy)